Don Abbondio
Manzoni spiega che Don Abbondio si era fatto prete solo per ottenere protezione dalla classe degli ecclesiastici la quale aveva potere e prestigio; si era, poi, creato un modus vivendi che gli permetteva di evitare ogni fastidio, e non si chiedeva se i suoi comportamenti obbedissero ai principi della fede, perché la paura gli impediva di porsi il problema del bene e del male. L’autore osserva con sguardo ironico questo prete tanto lontano dalla figura del vero sacerdote; non lo critica con commenti severi, ma ne mostra la fragilità umana e l’egocentrismo nei gesti, nei monologhi e nei dialoghi.
Fin dal primo capitolo, nel quale il personaggio viene presentato, notiamo che a definirlo concorrono diverse modalità:
- la descrizione del suo comportamento prima dell’incontro con i bravi;
- la narrazione dell’incontro con i bravi, la descrizione del suo comportamento in questa occasione, la “citazione” delle sue parole;
- una digressione, abbastanza lunga, una sorta di “storia nella storia” che ricollega il comportamento di don Abbondio nell’episodio narrato al suo carattere, alle sue scelte di vita, a loro volta “obbligate” in un secolo di violenza e di prepotere;
- il monologo che segue all’incontro;
- la narrazione, che si attua prevalentemente attraverso il dialogo, del ritorno a casa e dell’incontro con Perpetua.
Non si fatica, perciò, a cogliere gli elementi fondamentali del suo carattere: è umile e tremolante di fronte ai bravi che gli parlano con tono minaccioso, pronto persino a chiedere consiglio ai due delinquenti, a cui si rivolge definendoli uomini di mondo … troppo giusti, troppo ragionevoli; fa addirittura un inchino, quando questi nominano don Rodrigo, e dice di essere disposto sempre all’obbedienza. Angosciato dal ricordo dell’espressione astiosa dei bravi e dalla convinzione che don Rodrigo non minaccia invano, non pensa al sopruso e all’ingiustizia che la richiesta dei bravi comporta, ma solamente alla difficoltà di annunciare a Renzo che il matrimonio non può essere celebrato. Alla fine del suo soliloquio sembra che i veri colpevoli siano quei ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano, voglion maritarsi. L’ironia nasce proprio da questa deformazione della realtà operata da don Abbondio, che capovolge i ruoli degli oppressori e degli oppressi.
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